Le favole hanno sempre una fine e non sempre un lieto fine: il destino non ha pudore nel costruirle ma anche nel distruggerle. Una favola, una delle tante che il calcio racconta, inizia il 30 ottobre 1960 nella Buenos Aires povera, quando viene alla luce un bambino che si innamorerà del pallone e ne farà una parte di sé. Si chiama Diego Armando Maradona. Basta vederlo, qualche anno dopo, palleggiare con gioia e naturalezza sugli sterrati di periferia per capire che è il migliore, un predestinato, e che da quella sfera sarà capace di trarre sinfonie irripetibili. Argentinos Juniors, Boca, Barcellona e, dal 1984, Napoli, la squadra giusta per essere amato come un figlio, per sognare e far sognare. Il ragazzo del popolo trova la città su misura, aristocratica e stracciona, per provare gli stessi umori, le emozioni, gli odori, la fantasia, il carnevale, le innocenti follie di Buenos Aires.
Campione del mondo, campione d'Italia
Messico '86, gol impossibili, sberleffi, magìe: Maradona regala all'Argentina il titolo quasi da solo, esibisce gol, passaggi geniali, generosità agonistica, trae dal pallone musica e poesia. Sbarca tra le stelle. Diventa il simbolo del calcio mondiale, il profeta del football d'autore. 26 aprile 1987: Napoli campione d'Italia. Sugli spalti del San Paolo abbracci e lacrime di liberazione. La città, vestita di azzurro e di tricolore, è tutta uno scudetto. Napoli festeggia se stessa, il primo appuntamento con la vittoria e con l'orgoglio. Esplode d'amore per Diego e scopre, finalmente, quanto sia dolce vincere. Mai vista una felicità di massa così totale. La festa di popolo dura fino all'alba, ma, dietro la festa, si allunga qualche ombra: sono le voci sulle notti bianche di Diego, sulla sua vita da anarchico, sulle sue debolezze. 29 aprile 1990: il Napoli è di nuovo campione. Festa in città, petardi, cortei, caroselli di auto, fiori, un tramonto magico, una notte sotto la luna. Una gioia immensa, uno scudetto discusso a Milano, ma scudetto vero per il popolo napoletano, un tumulto di cuori e di felicità. Grazie alla squadra, e grazie a Diego, 16 gol nonostante tutto, la schiena dolente, le polemiche, i problemi di gambe e di testa, la velocità che non è più quella del vento; nonostante i "giochi proibiti" e il demone bianco della cocaina. Napoli, per la seconda volta, vive la favola più bella, quella che, un giorno lontano, si ricorderà in un sospiro.
Il declino
L'autunno del '90 è nero. Maradona, a 30 anni, è in pieno caos: liti con la società, ricatti, allenamenti saltati, infiltrazioni, notti bianche, una vita consegnata al vizio, contratto a Barcellona nell'83 e sempre praticato lungo la strada di una puntigliosa autodistruzione. E' dentro un tunnel, in pieno dramma esistenziale. La polvere bianca gli brucia i muscoli e il cervello. In campo non è più lui, non gli riescono più i dribbling irridenti, le acrobazie, i pallonetti, i colpi di tacco, le punizioni incantate, gli ordini al pallone, le magìe di sinistro che lasciavano il San Paolo senza fiato. Il 24 marzo '91 segna su rigore a Genova contro i blucerchiati: è l'ultima partita e l'ultimo gol in maglia azzurra. Girano le voci, poi l'ufficioso diventa ufficiale: Maradona positivo all'antidoping. Tracce di cocaina. Il 1° aprile se ne va, destinazione Buenos Aires. Finisce una favola. Napoli perde il suo campione e il suo orgoglio: quel ragazzo con la faccia da scugnizzo che palleggiava come un angelo e segnava come un dio, il giocatore più bello e più brutto del mondo, capace di firmare gol da brividi e clamorosi autogol nelle notte che non finivano mai, nei giorni che non cominciavano mai, gonfio di vizi, fradicio di sudore e di whisky, incontinente, stremato. Un ragazzo che non si amava e che, se non fosse uscito dal campo, forse non si sarebbe mai smarrito. Il resto sono solo spiccioli.